Il nome della rosa è una pellicola di Jean-Jacques Annaud. Scritto da Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard, è tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Eco del 1980.
Il film è un intero flashback di Adso da Melk, un frate francescano, nel quale ricorda i giorni passati in un monastero benedettino sull’Appennino toscano con il suo mentore Guglielmo da Baskerville.
I due frati francescani si sono diretti lì per un concilio con la lega papale, per impedire l’accusa di eresia dell’ordine di san Francesco, però vengono coinvolti in una serie di delitti sui quali Guglielmo di Baskerville si troverà ad indagare.
Questo articolo non vuole essere una recensione su quanto sia o meno bello il film, ma più uno strumento, una chiave, per leggere e comprendere meglio Il nome della rosa. Ci soffermeremo su tre scene o battute, in cui saltano fuori degli spunti di riflessione particolari.
Chi è Guglielmo da Baskerville? È Elementare!
Il riferimento dietro il personaggio di Guglielmo da Baskerville è pressoché elementare! il suo nome ce lo rivela: Guglielmo d’Ockham, anch’egli, come il personaggio di Eco, un filosofo e frate francescano nonché inventore del metodo induttivo, il rasoio di Ockham. Inoltre il semiologo italiano e autore del romanzo si ispira anche al famosissimo protagonista di sir Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes. Proprio a Baskerville, infatti, è ambientato il terzo romanzo dell’infallibile detective. Come lui, il frate ha un acume e una capacità induttiva molto sviluppata ed è chiamato ad investigare sull’assassinio dei confratelli benedettini.
Nei primi minuti del film, Guglielmo da Baskerville, interpretato da un perfetto Sean Connery, sta indagando e cercando tracce della morte del primo frate e mentre sta rispondendo ad uno dei dubbi del suo novizio conclude la frase con una citazione tutt’altro che casuale: «No no, mio caro Adso… è elementare!»
Il dibattito sul riso nei monasteri
Al momento delle indagini del secondo delitto, Guglielmo da Baskerville si trova nello scrittoio e lì ha un curioso scambio di battute con il bibliotecario Jorge da Burgos, interpretato da Fëdor Fëdorovič Šaljapin. Il benedettino è ostile alle risate: solo un folle apre la bocca per ridere!
Ora molti ordini dei mendicanti accettavano il riso, come i francescani, ovviamente era più un sorriso giocondo e pieno di felicità e di amore di Dio, piuttosto che un riso provocato da parole volgari o da prese in giro. Mentre per l’ordine dei benedettini, come rende noto lo storico francese George Minois nella sua grande opera, La storia del riso e della derisione: «Per San Benedetto d’Aniane il riso è sinonimo di leggerezza e di orgoglio, e poiché il Signore condanna coloro che oggi ridono, è chiaro che l’anima fedele non deve mai ridere».
La domanda che sorge spontanea è: il riso era veramente demonizzato dalla chiesa?
Che il riso fosse considerato opera del demonio non è una novità, ma non perché uno dei precetti della bibbia fosse quello di non ridere, ma perché la sua ambiguità va contro la concezione di fede unica e di unica verità rivelata del cristianesimo. In realtà, si può constatare la presenza del riso anche nei monasteri, attraverso gli Ioca Monachorum, i giochi dei monaci, i quali consistevano in delle bonarie prese in giro della vita monastica.
Ma perché?
Il riso caratteristico del tardo medioevo, in questo caso del 1327, è un riso che ha origine popolare, nasce dalle feste come il Carnevale quindi, è un riso ambiguo, abbassante e parodico. Era necessario per sdrammatizzare la crudeltà della vita stessa.
Come dirà Jorge da Burgos verso le fasi finali del film: «Il riso cancella la paura, se si permettesse il riso, si autorizzerebbe di deridere anche Dio».
Il secondo libro della poetica di Aristotele
Ne Il nome della rosa si parla del secondo libro de La Poetica di Aristotele, che avrebbe dovuto trattare, appunto, della commedia. A noi, però, non è mai arrivato. Nel primo libro, dopo aver parlato abbondantemente della catarsi, della mimesis e della tragedia, le ultime pagine del testo si interrompono con l’annuncio che andrà a trattare della commedia, come se avesse voluto farlo in un successivo libro.
Ma è veramente esistito? Prima di rispondere a questa domanda bisogna fare dei chiarimenti. Prima di tutto, questi due generi erano nettamente separati nella Grecia Classica e, ovviamente, il genere considerato più nobile era quello della tragedia. Attraverso l’immedesimazione con le forti passioni degli eroi tragici, lo spettatore poteva purificarsi da queste passioni, che avrebbero portato a delle tragedie. La commedia, invece, viene dal basso, un basso-materiale e non sarebbe potuta in nessun modo essere considerata alla stregua della prima.
L’altro punto che si vuole sottolineare è la differenza tra il riso greco e quello medievale. Il riso greco è strettamente collegato ai ditirambi di Dioniso, il dio nato due volte, il cui culto è strettamente legato alla corporeità. Si ride del corpo e di ciò che ambiguo. Di questo riso, della commedia, Aristotele ne parla nella Poetica: «[essa è] nata da un principio di improvvisazione – e sia essa che la commedia: l’una da coloro che guidavano i ditirambi, l’altra di coloro che guidavano i canti fallici».
Il riso del medioevo, come è stato detto in precedenza, è parodico ed è strettamente legato alla vita, suo oggetto di parodia. Il riso greco non ha nulla di tutto ciò, non deve indorare la pillola al popolo, né deve essere strumento di sfogo degli oppressi, quello medievale sì.
Il sapere nei monasteri e l’importanza del Medioevo
Durante il medioevo i monasteri erano delle vere e proprie scuole e grazie a loro e ai monaci amanuensi sono arrivati a noi moltissimi dei trattati greci e latini.
Proprio con la riforma carolingia della scrittura e dell’educazione si sono cominciate a formare le prime aule, scrittori e biblioteche e le università in seguito.
Infatti, prima di ciò, l’insegnamento era, anche con i filosofi arabi, ancora in stile greco, a tu per tu. Le prime università erano composte da un organico molto simile a quello odierno, con professori e assistenti.
Nel Medioevo i monaci erano fra i pochi ad avere diritto all’istruzione e nel film ispirato al libro di Eco vediamo, conseguentemente, diverse scene di studio.
Senza di loro, comunque, non ci sarebbero scuole e università così come le conosciamo oggi.
Molti concepiscono, ancora, il Medioevo come un momento buio della nostra storia, ma ora finalmente ci stiamo allontanando da questa lettura riduttiva dell’epoca. Infatti, il Medioevo è stato un periodo che ha piantato le radici della società contemporanea.
Ben vengano, quindi, romanzi e film come Il nome della rosa che, oltre gli indubbi meriti artistici e di intrattenimento, hanno il merito di farci conoscere un periodo così villipeso, ma fondamentale, della nostra storia.
Se vi piacciono le serie, potete guardare anche la miniserie omonima con John Turturro, Rupert Everett, Michael Emerson e Stefano Fresi del 2019, disponibile sia su Netflix che su Rai Play.
Bibliografia:
- Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino, 2008
- Minois, G., Storia del Riso e della derisione, edizioni Dedalo, Bari 2004