“Hai mai dovuto mettere la tua vita nelle mani di qualcuno? O chiesto a qualcun altro di mettere la sua vita nelle tue?“, chiedeva il colonnello dei Marines Nathan R. Jessep (Jack Nicholson) al terrorizzato avvocato tenente della marina degli Stati Uniti Daniel Kaffee (Tom Cruise) nel film capolavoro Codice d’Onore.
Nel 1992 Rob Reiner dirige tre mostri sacri di Hollywood (l’altra è Demi Moore nel ruolo del tenente di corvetta JoAnne Galloway) e naturalmente nessuno di loro ha poi avuto a che fare con il piccolo Frodo Baggins di Tolkien. In un gioco di illusioni mentali e scambi di citazioni di cui il cinema ci nutre però, possiamo giocare all’infinito ad un tetris folle ed immaginario e tirare su i nostri “film”.
Ad occhi chiusi. E vediamo che succede…
Si spengono le luci in sala
Dunque, fermo immagine al momento in cui Jessep sproloquia le sue verità e volto pagina (virtuale) cancellando dalla scena Jack Nicholson, poi… via la tetra Washington, via l’aula di tribunale e prendo in prestito Gandalf, la Terra di Mezzo, la voce del suo doppiatore Gianni Musy e li piazzo lì davanti a tutti coloro che da quasi 20 anni si chiedono: “perché l’anello è stato dato proprio a Frodo? Non sa fare niente!“.
Il “film” è iniziato con una delle più classiche provocazioni vecchia di anni, ora la sceneggiatura va sviluppata e la matassa sbrogliata con eleganza.
Con una certa soddisfazione e ghigno malefico schiaccio play e attendo paziente la reazione di quelle facce saputelle.
Ian McKellen e Gianni Musy sono lì, tra le fiamme del Monte Fato, (ripensandoci, però, tono e cattiveria li ripiglio da Nicholson va, vuoi mettere come incute timore lui?) e tutti e tre, fusi in un Gandalf-Nicholson da film horror più che fantasy, rispondono tonando: “Hai mai dovuto mettere la tua vita nelle mani di qualcuno? O chiesto a qualcun altro di mettere la sua vita nelle tue?“. (rumori di tuono e fulmini)
Sì. Il ragionamento che mi condurrà a concludere che le vostre sono solo superficiali, illogiche ed ingiuste critiche, ha inizio con il mostro a tre teste che mi sono appena costruito in testa.
Sì. Il ragionamento ha come sfondo il concetto cattolico del peso della vita e del suo destino messo nelle mani di chi apparentemente non ha forza né vigore per sorreggerli. In altre parole la risposta alla vostra domanda sta proprio nella vostra domanda.
Falsi presupposti e finti cliché
Dunque, le vostre affermazioni partono dal presupposto che solo chi sa combattere, chi sa impugnare sette spade in tre sole dita o chi è alto, biondo, occhi azzurri e muscoloso può essere un vero eroe e per di più se sapesse anche controllare i venti della magia, complottare, manipolare, ingannare, cucinare, fare la spesa ecc. sarebbe pure degno della vostra attenzione.
Non lo nego. Nel senso: lo stesso Tolkien non vi aiuta molto a discernere questo o quel personaggio dal suo background preconfezionato. Per di più la storia non lascia spazio a nessuna evoluzione: tutti i personaggi rimangono fermi e incastrati in se stessi e nella personalità in cui l’autore li ha “disegnati”.
Aragorn è e rimane sempre il solito eroe oscuro e tenebroso; Gimli è e rimane sempre il burbero nano; Gandalf è e rimane sempre il papa della Terra di Mezzo e Legolas… ah sì Legolas! È e rimane sempre il miglior arco della Terra di Mezzo. Più o meno.
L’elfo riesce a montare su un cavallo al galoppo girandogli attorno (o dietro, non ricordo) con un carpiato a destra e mezza giravolta, poi uccide da solo 37 goblin e un olifante, scalando la pancia dell’enorme pachiderma senza aiuto delle braccia, ma non riesce – ripeto, non riesce! – ad uccidere un orco disarmato, agile come un bradipo durante la gravidanza e a soli cinque-sei metri di distanza prima che questo si faccia esplodere sotto le mura del Fosso di Elm!!! (perché? perché?)
Goff goff… torniamo al “film”, dicevamo: i personaggi di Tolkien sono sempre gli stessi per tutta la narrazione e incoraggiano quello che oggi verrebbe definito il classico cliché dell’eroe potente e affascinante. Teoria peraltro già sdoganata da numerose serie tv come Umbrella Academy e The Boys.
Ebbene, Frodo non rientra certo in queste categorie: piccolo, goffo, inesperto di tutto, impacciato, ingenuo e anche un po’ tardo forse.
“Dunque perché è lì?“, incalzano i critici, ma Gandalf-Nicholson si toglie con abilità dalle corde, non placa la sua ira e continua a tuonare. Per rispondere va prima fatto un passo indietro.
Il Signore degli Anelli è un romanzo uscito a pezzi tra il 1954 e il 1955. Cioè 66 anni fa. Non 66 giorni fa. Costruito, studiato e plasmato sulla base e sullo sfondo di centinaia di leggende norrene, germaniche e finlandesi, che a tutto pensavano tranne cha ad un paladino basso, peloso e tardo.
Il mondo degli anni ’50, poi, si reggeva sul un modello maschile prestante e vincente, più simile ad un Aragorn che non ad un Frodo.
L’antitesi hegeliana
Eppure, se ci basassimo solo su questa tesi dell’eroe che regge il mondo sulle proprie spalle, impavido e invulnerabile, le sciocche conclusioni di ingenui e finti cinefili sarebbero, ahimè, vere… ma… (e qui Gandalf-Nicholson dice “ma” con la voce di Ennio Coltorti, doppiatore di Hugo Weaving e l’agente Smith di Matrix)…
…alla tesi deve contrapporsi un’antitesi hegeliana che a sua volta produca la sintesi del “film” e che decomponga le false critiche.
Durante il Concilio di Elrond (interpretato, ma che coincidenza, proprio da Hugo), a Gran Burrone, si incontrano i migliori personaggi della Terra di Mezzo, i più potenti, i più belli, i più fichi di tutti: uomini, elfi e stregoni giunti da ogni angolo del mondo discutono su chi dovrebbe avere l’onere e l’onore di distruggere l’anello. E accade la cosa più scontata del mondo: tutti se lo litigano. Ognuno di loro si autoproclama l’unico in grado di distruggere l’anello indipendentemente “dall’arte che possiede” (cit.).
“Ma Aragorn è l’erede di Gondor! È un Re! Chi meglio di lui?“, chiedono le voci arroganti dalla sala, ma Gandalf-Nicholson risponde: “Taci! Aragorn è più preoccupato di perdere la sua donna che di riscattare il proprio nome e rango, avrebbe fatto tranquillamente a meno di essere qui al Concilio, pur di farsi una bella scampagnata nel Bosco Atro con lei!“.
L’anello è l’oggetto del contendere. Esso darebbe un potere enorme in mano a chiunque non sappia gestirlo: l’eroe pomposo pieno di sé, l’erede forte ma timorato e lo stregone. Per questo il Concilio si trasforma in una baraonda: la classica riunione fra (pochi) potenti che devono decidere del destino di tutto il pianeta. E lo fanno spinti non dal senso di responsabilità, ma dal desiderio egoistico di dimostrare di essere i più forti.
Frodo: un’anima piena di grazia
I nani mai e poi mai lascerebbero l’anello agli elfi per non dare alle orecchie a punta un’occasione nuova di schernirli e appesantire il senso di inferiorità che già provano nei loro confronti; gli uomini, invece, che non hanno avuto il coraggio di distruggerlo già tremila anni prima (“Hugo era lì Gandalf, quando la forza degli uomini venne meno“), adesso non sarebbero da meno; gli elfi e gli stregoni potrebbero usare l’anello per fare del bene, ma attraverso di loro “eserciterebbe un potere talmente grande” che neanche Gandalf potrebbe controllarlo.
Inoltre, il potere dell’anello corromperebbe in breve tempo l’anima già corrotta dalla brama di potere e di rivalsa di coloro che si sentono più forti degli altri. E , se questo accadesse, Sauron avrebbe gioco semplice nel plagiarli e portarli dalla sua parte e tutto cadrebbe nell’oscurità (cala il silenzio)
Ognuno di quegli eroi, in conclusione, non è degno di portare un fardello del genere, perché la loro forza è, in verità, anche la loro più potente debolezza.
Serve qualcun altro. Libero da ogni condizionamento. Il cui animo leggero sia (quasi) incorruttibile.
Alle spalle di quei “tutti muscoli e niente cervello”, come diremmo noi oggi, si ergono poco fieri e spauriti quattro piccoli hobbit, il cui unico potere è quello dell’umiltà. E tutto il cattolicesimo (non) nascosto dell’opera di Tolkien esplode in un canto di giubilo. “I miti erediteranno la terra” e anche un anello del potere talmente seducente, che solo un’anima pia può contrastarlo.
Un’anima piena di grazia.
Pietà ed umiltà nel personaggio di Frodo
Frodo è l’unica scelta possibile, è la voce fuori dal coro che non ti aspetti, perché non ha le stesse caratteristiche degli altri. Non è forte, non è veloce, non ha poteri, è ingenuo, un po’ ignorante ed inesperto oltretutto. Insomma, il migliore fra tutti.
Le sue numerose debolezze sono la sua più potente arma contro il male.
Non solo, ma spinto proprio dall’inconsapevolezza delle conseguenze della sua scelta, Frodo si propone da solo come portatore dell’anello e l’inesperienza che ha di avventure ad atti eroici non lo impauriscono più di quanto non sappia “la strada per Mordor“.
Agli occhi degli eroi, quella decisione sa quasi di tragedia, ma sanno anche che le loro qualità possono ancora essere utili. Ognuno di loro dovrà usare al meglio il libero arbitrio per collaborare alla riuscita della missione, ovvero impedire al proprio ego di far fuori quattro pedoni pelosi e indifesi per impossessarsi (finalmente) dell’anello.
Partono in nove e la provvidenza, non il destino, li separa perché Frodo è vulnerabile alla forza dell’uomo che “più di ogni altra cosa desidera il potere“. Frodo deve continuare, quindi, il proprio viaggio da solo, perché la solitudine è l’unica difesa contro la corruzione e l’umana follia.
L’umiltà dell’hobbit e la pietà della compagnia nei suoi confronti lo investono della pesante – e salvifica – missione.
La stessa pietà che Bilbo ha provato quando, con un inganno, prese l’anello a Gollum e non lo uccise.
La miglior scelta possibile
Il portatore dell’anello diventa, così, una figura ancora più fragile, perché sulle sue minute spalle si regge il destino del mondo. Tutto dipende da lui: la vita e la morte dipendono da quanto Frodo è in grado di sopportare il male derivante dall’anello. E lo farà a costo non solo della vita, ma anche di spezzare un’amicizia strettissima con Sam.
Il giovane hobbit è disposto a sacrificarsi, speranzoso che un giorno possa essere redento: Frodo guarda Gollum e non lo uccide come suggerisce Sam, perché sa che un giorno potrà diventare come lui se non riuscisse a distruggere l’anello.
E se poi lo diventasse, Frodo vorrebbe che la sua vita potesse essere “recuperata”, appunto, da chi lo guarderebbe come lui ora guarda Gollum.
Dite che non è cattolica l’opera di Tolkien? Gandalf-Nicholson vi guarda e vi dice: “Frodo che cade lentamente sotto i colpi dell’anello e che davanti alla disfatta che sente ormai prossima si rialza (grazie a Sam) sempre, non vi ricorda nessuno?“.
Il male corrompe. Tutti. Indistintamente. Anche le anime pie. I puri di cuore.
Frodo fallisce la missione, infatti. Non getta l’anello tra le fiamme del Monte Fato (lo ha corrotto), anzi se lo mette e scompare dalla vista di Sam per potersene scappare e rintanarsi come fece Gollum. Già, Gollum. Rimasto in vita per pietà e perché alla fine si rivela per quello che è davvero: lo spirito di quella provvidenza che nella tradizione cattolica identifica la presenza di Dio fra noi. Per chi crede, ovvio.
Gollum recupera l’anello, inciampa e cade. Sauron è sconfitto. Così è. Così doveva essere. Così è accaduto, ma non sarebbe mai successo senza l’intervento di Frodo: l’umiltà al di sopra della forza bruta, al di sopra di ogni bellezza, fascino e abilità di un banale eroe fantasy, è l’unica arma contro il male.
Gandalf-Nicholson si interrompe. Non aspetta nemmeno una vostra risposta, talmente sbigottiti come siete rimasti. Si dissolve nei sogni e ogni citazione torna al suo vero posto nella storia del cinema.
Ogni scena si dissipa nell’aria. Il “film” si chiude.
The End (titoli di coda)