In un intervista rilasciata dagli autori, Becky Sloan spiega che una serializzazione di Don’t Hug Me I’m Scared non era preventivata nelle intenzioni degli autori, poiché per la realizzazione dell’episodio 1 c’erano voluti un grande dispendio di tempo ed energie che aveva portato a quasi sei mesi di lavori.
Ipotizzare una serie in cui presumibilmente ogni episodio sarebbe dovuto durare in fase di preparazione cinque o sei mesi avrebbe scoraggiato chiunque.
Don’t hug me i’m scared ha dovuto la sua longevità al supporto e alla richiesta del pubblico sempre più innamorato e colpito puntata dopo puntata.
Amore che si è poi esplicitato in una raccolta fondi che ha permesso la realizzazione degli episodi successivi al secondo, anticipato dagli autori con una serie di mini video in cui i tre personaggi erano stati rapiti e si chiedeva un riscatto a chi stava guardando.
Un modo creativo di fare crowfunding, non trovate?
Ciò mi porta a concludere che il primo video debba essere considerato “distaccato” dagli altri e lo dimostra il fatto che sia uscito quasi tre anni prima del secondo e che in quel momento gli autori non avevano già in mente la piega che avrebbe preso la storia. Questo spiegherebbe anche l’assenza di “Roy” in questo episodio, personaggio che merita una menzione a parte, ma ne parleremo più avanti.
Il primo video della serie Don’t Hug me I’m Scared racconta le vicende dei tre pupazzi che si trovano ad avere un maestro particolare: un blocco da disegno che insegnerà loro (o almeno ci proverà) come essere creativi. Dopo una prima spiegazione da parte dell’oggetto animato, i tre saranno liberi di mettere in pratica ciò che ha loro insegnato… con conseguenze oltre ogni aspettativa e decisamente inquietanti.
Prima di addentrarci nell’analisi, magari, guardate il video e provate a dare una vostra interpretazione – in privato o nei commenti – senza farvi infunzare da quella che vi proporrò di sotto e che sul web sembra essere la più accreditata.
Fatto? Perfetto! Iniziamo a sciogliere qualche nodo.
Una Creatività Vincolata
La parola chiave del video è ovviamente Creatività. Inizialmente i tre non vedono le cose in modo creativo e ad esempio per loro un’arancia è solo una noiosa e vecchia arancia – “a boring old orange” cit. – mentre il blocco da disegno la vede animata, sorridente e in grado di camminare.
Nell’insegnare ad essere creativi, il blocchetto animato impone delle regole da rispettare, o meglio da seguire, per riuscire nell’intento.
Particolare rilevanza a mio parere assume in questo contesto la figura di Yellow Guy. Lui si dimostra molto creativo al contrario degli altri, forse proprio per il suo essere la rappresentazione dell’infanzia è più propenso ad imparare subito e a mettere in pratica.
Non segue gli schemi prefissati dal blocco da disegno e viene sempre redarguito per questo. Sia verbalmente, quando sceglie il verde che “non è un colore creativo” – ma solo perché non era stato indicato come tale – sia in modo pratico, come quando con una colata di inchiostro il blocchetto distrugge il dipinto di un clown appena creato da Yellow Guy.
Ma perché il maestro fa questo? Pensare fuori dagli schemi e realizzare arte è esattamente il concetto di Creatività che sta cercando di insegnare loro, dunque perché non lodare il proprio alunno per le sue realizzazioni?
Forse perché il reale scopo del maestro non è quello di insegnare loro come essere creativi, ma semplicemente insegnare a sottostare ad alcune norme imposte da altri.
È in questo che ancora una volta la contraddizione che caratterizza il titolo riemerge: essere creativi significa evadere dagli schemi, non sottostarvi. Quella che il blocco da disegno sta insegnando non è vera creatività, ma ciò che il pensiero comune percepisce come “creativo”.
E lo capiamo anche quando, guardando il cielo oltre la finestra, i tre protagonisti non vedono altro che nuvole prive di forma. Nel momento in cui il loro istruttore si porta una lente sull’occhio, però, ecco che le nuvole iniziano a prendere sembianze di oggetti e animali, quasi come se il Blocco non stesse insegnando loro a vedere, ma semplicemente trasmettendo ciò che lui vede.
Il maestro sta passando una visione delle cose. Ma a questo punto bisogna chiedersi di chi sia questa visione, di chi queste regole.
Più in particolare, di cosa è metafora il blocco da disegno?
La Teoria dell’Ago Ipodermico
Accade qualcosa nel momento in cui il blocchetto decide di lasciare la scena ai tre pupazzi. E non intendo la follia a cui danno vita nel finale, intendo quei pochi secondi tra il comando “Get creative!” e la suddetta “pazzia”.
Tutto diviene computerizzato, abbandonando la composizione in pezza per la computer grafica e, quando l’inquadratura gira attorno al tavolo, tutti noi possiamo vedere una sorta di regia con tanto di ciak take che sembra stia riprendendo i protagonisti. Ci viene mostrato lo show oltre lo show, quasi che gli autori ci volessero comunicare la presenza del set.
Sono solo pochi secondi, ma fanno capire il senso del messaggio del video. C’è un regista che li controlla? Che veicola le loro mosse e ne stabilisce le azioni?
E se il blocco da disegno altro non fosse che una personificazione del sistema dei media?
All’interno del video sono presenti degli elementi che avvalorerebbero questa tesi. Quando infatti il blocchetto mostra come vedere nel modo corretto le nuvole in cielo, esso si trova esattamente sopra una radio.
Inoltre nel momento in cui tutto diventa in computer grafica gli unici oggetti che non spariscono sulla scena sono un telefono e per l’appunto una radio.
Non scordiamoci che la radio fu uno dei primi media usato per scopi propagandistici durante il nazi-fascismo, il primo dunque che abbia esercitato un’influenza sulle masse.
Nei primi anni del Novecento si sviluppò una teoria chiamata “Dell’ago ipodermico” che rappresentava i media come un ago che si innestava sotto la pelle delle persone.
La metafora serviva a denunciare come i messaggi dei nuovi mezzi di comunicazione potessero infilarsi dentro le teste di chi ne faceva uso riuscendo parzialmente ad influenzarne le decisioni.
Visto in questa chiave, il messaggio di Don’t Hug me I’m Scared 1 può essere letto come una denuncia a questa costante e molesta presenza dei media nelle nostre vite, che spesso ci controllano senza che ne siamo pienamente consapevoli.
Si tratta di un invito ad aprire gli occhi e a ribellarsi – ideologicamente parlando – ad un sistema che ci vuole uniformati nei modi e nei pensieri.
Creare significa soprattutto pensare e farlo fuori dagli schemi, ossia elaborando gli stimoli in maniera autonoma al fine di produrre qualcosa di realmente nuovo ed originale.
Significa poter usare il verde come colore creativo.
No More Privacy
C’è la possibilità di vedere il messaggio di Don’t hug me i’m scared 1 anche in un altro senso. Forse la regia non ha la funzione di veicolare le loro vicende, ma di semplice controllo. Come se tutte le loro azioni, fin dentro la loro casa (luogo in teoria assoluto della privacy), fossero costantemente sotto gli occhi di qualcuno, di una regia occulta.
Anche questa volta la metafora dei media è diretta e plausibile. La tecnologia e i media sono già dentro le nostre case e sempre di più, anno dopo anno, si radicano nei nostri usi e costumi.
Chi, arrivato in quest’epoca, potrebbe riuscire a dimenticarsi del proprio smartphone e vivere anche solo un giorno intero non avendolo con sé?
Ecco la – triste – verità: da semplici accessori della nostra vita, media e tecnologie sono diventati un bisogno quasi fisiologico.
Il Macabro Finale di Don’t hug me i’m scared 1
Quando i tre pupazzi vengono lasciati liberi di esprimere la loro creatività, quando cioè il maestro si fa da parte all’ordine: “Let’s get creative!” , ciò che i tre riescono a far emergere sono le parti più macabre e insane dell’essere umano.
Il pensiero ricorrente della morte, il disordine e l’insensatezza prendono il sopravvento, fino a sconfinare nella schizofrenia.
Addirittura il cielo, che prima, sotto lo sguardo del blocchetto, era apparso sereno ed amichevole, senza di lui muta, diventando burrascoso e cupo.
Per vederla in chiave quasi metafisica, si può dire che l’anarchia o più semplicemente il libero arbitrio concesso agli uomini, sia preferibilmente da evitare, poiché essi non partoriranno mai del bene senza una guida.
Il caos e la spinta ad agire in controtendenza rispetto agli insegnamenti ricevuti potrebbero anche essere letti come il risultato dell’imposizione di un sistema di norme che si sentono strette e dalle quali si vorrebbe evadere.
Il video si conclude con il blocco da disegno che arriva alla decisione di “non essere creativi mai più” – “Now that’s all agree to never be creative again” – .
Isolato dal contesto, apparirebbe come un invito a non fare di testa propria, rivelando ancora una volta come la guida di qualcuno sia necessaria. Come a dire: “Ecco cosa succede altrimenti!”.
Conclusioni
Qualunque sia la visione che si adotta del prodotto, Don’t Hug me I’m scared 1 è una webserie colma di misteri e di allegorie e non è un caso che sia diventata virale in così poco tempo.
Qualunque fosse l’intenzione originaria, è chiaro che gli autori hanno fatto un ottimo lavoro, animando un dibattito in grado di sfondare i muri dell’indifferenza e del dimenticatoio.
Siamo molto curiosi di conoscere la vostra opinione al riguardo.
Avete un’interpretazione diversa di questa prima puntata?
Fatecelo sapere in un commento!