Dune, l’ultima, colossale, opera del regista canadese Denis Villeneuve, presentata a Venezia 78, a distanza di due settimane dalla sua uscita in Italia, è ancora in testa alle classifiche del box office.
Si tratta di una trasposizione cinematografica di una certa importanza: un classico della letteratura di fantascienza, il primo libro di una monumentale saga – un ciclo originale in sei volumi, più una serie di opere derivate – che ha ispirato una moltitudine di autori, dalla letteratura al cinema, e venduto oltre 12 milioni di copie nel mondo, segnando il record nella narrativa di genere.
Non a caso, «senza Dune, Star Wars non sarebbe mai esistito», come ha affermato George Lucas, il cui universo cinematografico è certamente debitore di quello ideato dallo scrittore Frank Herbert, fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del 900; lo stesso Steven Spielberg ha riconosciuto a Dune il merito fondamentale di aver ispirato gran parte della sua produzione; senza trascurare gli elogi da parte di scrittori di altissimo livello come Isaac Asimov e Stephen King.
Aggiungiamo, inoltre, che Villeneuve non è il primo a confrontarsi con l’intricatissima materia e che il precedente tentativo era stato fatto da un regista del calibro di Lynch, con risultati non brillantissimi, a sentire la maggioranza della critica.
Ciò rende chiara l’importanza del progetto e l’atto di fiducia che hanno fatto i produttori – Warner Bros, ndr – ad affidare la sua esecuzione al regista canadese, coinvolto già a partire dal 2017.
Villeneuve, d’altronde, non ha tradito le aspettative, rispettando il più possibile l’essenza del libro, ma, al tempo stesso, adattandone il contenuto alle esigenze del grande schermo.
Ecco, dunque, che il flusso dei pensieri dei protagonisti, indissolubilmente intecciati alle battute dei dialoghi, viene meno, ma la natura riflessiva del racconto è suggerita, nel film, dai tempi lenti e dall’andamento solenne di molti degli scambi fra i personaggi.
Solennità convogliata anche dalla colonna sonora, ad opera di Hans Zimmer, con cui Villeneuve aveva già collaborato per Blade Runner: 2049.
La suggestione delle musiche di Zimmer – caratterizzate da temi d’ottoni su ostinati d’archi, accompagnati da cori ed effetti elettronici – è il giusto complemento per ambientazioni spoglie e, al contempo, maestose, che ci ricordano costantemente la piccolezza dell’uomo nei confronti dell’immensità del cosmo e della potenza della natura, simboleggiata, in particolare, dall’ambiente ostile del deserto, con i suoi mille pericoli.
Pericoli che derivano, in parte, dagli umani stessi, impegnati a turbarne l’ecosistema per l’estrazione della spezia, la preziosissima sostanza che rende possibili i viaggi interstellari, ritenuta sacra dai nativi di Dune per i suoi effetti psichici. L’ingordigia degli umani, d’altronde, si fa vedere anche nelle intricate trame di potere, tra casate antagoniste – Atreides e Harkonnen – e culmina in una congiura ordita dall’imperatore in persona.
Sta al gracile Chalamet/Paul Atreides ristabilire l’ordine, figlio primogenito del Duca e probabile Mahdi, il messia profetizzato dalla gente delle sabbie come colui che dovrebbe portarli alla salvezza. O forse no? Il ragazzo, d’altronde, ha soli 15 anni, anche se le visioni dei futuri possibili a cui è soggetto suggeriscono un potere superiore a quello di un normale erede di una nobile casata.
Timothée Chalamet si rivela la scelta adatta per un giovane ancora acerbo, ma dotato di una grande forza interiore, soprattutto e prima che fisica.
Villeneuve è abituato a personaggi riflessivi – lo era la sua Louise Banks di Arrival e anche L’Agente K interpretato da Gosling in Blade Runner: 2049 – cui riesce a regalare particolare profondità.
Anche la Lady Jessica, madre di Paul, da lui rappresentata, sebbene meno aggressiva rispetto alla sua controparte libraria, è dotata di un’intensità nevrotica che la rende fragile e, al contempo, determinata, e che ben si sposa con i tratti eleganti di Rebecca Ferguson.
Bene anche Oscar Isaac e Javier Bardem, rispettivamente il Duca Leto Atreides e il capo dei Fremen, la gente delle sabbie.
Disgustoso e a tratti inquietante Stellan Skarsgård, che impersona il perfido Vladimir Harkonnen. Abbastanza adatto Jason Momoa, nei panni del guerriero e maestro d’armi Duncan Idaho, se non altro in quanto esemplare umano unico nel suo genere.
Zendaya non pervenuta, per le poche e fugaci apparizioni del suo personaggio, che avrà un ruolo decisamente maggiore nel secondo film.
Nel complesso Dune è un’opera da leggere su più livelli: nelle epiche vicende che hanno come centro il pianeta Arrakis, denominato anche Dune per la sua conformazione desertica, è, infatti, impossibile non vedere la rappresentazione di questioni che attanagliano la nostra contemporaneità.
Il tema ecologico dello sfruttamento delle risorse terrestri e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, i retaggi coloniali, la sete di potere, i rapporti fra etnie e culture diverse. Tutti questi temi, già presenti nel romanzo, sono trasposti da Villeneuve sullo schermo in una riflessione che, pur fermandosi, per il momento, alla superficie, sicuramente proseguirà nei successivi capitoli della saga.
D’altronde la fantascienza, se di qualità, ci ha sempre abituati ad interrogarci sul presente e sulle possibili derive della nostra società e lo fa anche in questa epopea di derivazione fantasy, di cui Villeneuve – che, visivamente, conferma la sua predilizione per architetture imponenti e oggetti fluttuanti – ha interpretato pienamente lo spirito in chiave contemporanea.