Nel 1843 in Danimarca veniva pubblicata in due volumi l’opera “Ente-Eller” (meglio conosciuta come “Aut-Aut”, “O questo – O quello” in italiano volgare) e firmata da Victor Eremita, pseudonimo di Soren Kierkegaard.
L’impronta edonistica del pensiero descritto, porta il filosofo danese a concludere che sarebbe una stoltezza dire che per un uomo può essere troppo tardi per scegliere e quando non sceglie appassisce in consunzione.
Ovvero, non compiere le scelte giuste per appagare e non fallire la propria vocazione (mistica, etica od estetica) condurrebbe l’uomo ad un’impasse esistenziale. O per dirla in parole povere: se non posso scegliere appassirò verso un lento esaurimento fisico e spirituale.
Eppure “certa gente nasce per essere sepolta”, come dice lo sceriffo Lee Bodecker (Sebastian Stan) nella nuova fatica di Antonio Campos “The Devil all the time” (Le strade del male) da qualche settimana sulla piattaforma Netflix.
Certa gente cioè, non ha scelta. Può solo morire o può solo uccidere.
Gli Stati Uniti del dopo guerra
Sullo sfondo di un’America disperata e da poco uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, il film del regista italo-brasiliano “Le strade del male” trae spunto dal romanzo omonimo di Donald Ray Pollock, ambientato tra l’Ohio e il West Virginia.
L’interpretazione che ci regalano i giovani e noti attori contribuisce in gran parte alla riuscita del film. Tom Holland (Arvin Russell), Bill Skarsgard (Willard Russell) e Robert Pattinson (reverendo Preston Teagardin) sorreggono con una certa maestria la storia in ogni scena, anche se purtroppo la voce narrante fuori campo non lascia troppa libertà di movimento.
D’altra parte ogni personaggio non può non fare ciò che fa, non può non compiere ciò che compie costretto com’è da ciò che gli vive (e muore) intorno. In un periodo storico in cui l’incertezza economica, conseguenza della guerra, viene bigottamente (s)bilanciata dall’eccessivo estremismo mistico e religioso, la morte diventa la terribile disillusione delle proprie scelte.
[SPOILER ALERT: attenzione, spoiler in arrivo! Continuate a leggere la recensione de “Le strade del male” a vostro rischio e pericolo]
Charlotte Russell (Haley Bennett), madre di Arvin e moglie di Willard, non sarebbe dovuta morire di cancro, perché padre e figlio hanno pregato il Signore talmente tanto e talmente intensamente che avrebbe dovuto risparmiarla. Almeno così dicevano in chiesa i predicatori. Nemmeno l’olocausto dell’innocente cane Jack sortisce l’effetto desiderato.
E così la violenza si trasforma nell’unica (e ultima) scelta possibile.
Le strade del male: la tragicità dell’opera
Disperato e vedovo, Willard Russell si taglia le vene nello stesso luogo in cui ha ucciso il cane e al piccolo Arvin, a cui il padre aveva già insegnato a difendersi contro bulli e prepotenti, non rimane altro che covare sempre di più rabbia e dolore.
Per qualche anno la sofferenza di essere rimasto orfano viene alleviata dalla nonna e dallo zio a cui Arvin affida vita e cuore. Nella vecchia casa di Coal River, Ohio, il ragazzino conosce la sua sorellastra, Lenora Laferty (Eliza Scanlen), vittima anch’essa prima dell’ignoranza e poi dell’arroganza degli uomini.
Il padre, il reverendo Roy Laferty (Harry Edward Melling, già Dudley in Harry Potter) uccide la moglie Helen Hatton (Mia Wasikowska) e madre di Lenora perché, dopo 14 giorni chiuso in uno stanzino a pregare il Signore, pensa di essere in grado di saper risuscitare un uomo dalla morte.
L’impertinenza, però, non rende l’uomo penitente. Anzi, l’immediata reazione del più comune pusillanime è quella di nascondere la mano quando ormai ha già lanciato il sasso.
Così Roy, deluso che il suo “miracolo” non abbia funzionato (o arrabbiato che il Signore gli abbia detto una bugia) fa a pezzi Helen, nasconde il corpo e tenta la fuga. L’errore (od orrore) non sta tanto, però, nel crimine che ha commesso, quanto nel fatto di credere di avere una ragione valida per giustificarlo.
Le storie raccontate ne Le strade del male, che si incrociano e si spingono a vicenda, hanno tutte un punto in comune: la tragicità non sta nella violenza con cui i personaggi compiono le proprie scelte, ma nell’illusione che quelle possano davvero portarli ad una meritata felicità.
Roy, più spaventato che pentito di ciò che ha fatto, tenta di scappare, ma incappa in Carl (Jason Clark) e Sandy (Riley Keough), sorella dello sceriffo Lee, due serial killer di autostoppisti che con la scusa di scattare qualche foto porno con il malcapitato e la bella bionda, vengono uccisi e fatti a pezzi. Roy ci casca, capisce l’intenzione di Carl, ma ormai è troppo tardi.
Roy doveva morire. In un modo o nell’altro. Non aveva scelta. Come tutti gli altri.
Le Strade del Male: quando non si può tornare indietro
Lenora, quindi (come detto sopra), si ritrova anche lei orfana, ma insieme ad Arvin, nella casa della nonna di lui, instaurano un rapporto di fedeltà e di amicizia. Arvin è la sua guardia del corpo e pesta a sangue chiunque tenti di farle del male.
La violenza come ultima scelta ora diventa l’unico strumento di redenzione e di felicità. E se, secondo Kierkegaard, un uomo non può non scegliere in base alla propria vocazione e, quando sceglie in base ad essa, quelle stesse scelte diventano anche le più giuste, a Coal River in Ohio uccidere e seppellire diventa, allora, un vero e proprio credo.
Anche quando la storia avrebbe dovuto prendere un’altra piega; perché si sa che, anche se l’uomo ha sempre un’ultima scelta, neanche il destino o Dio o chi per lui o il diavolo (fate un po’ voi) possono fermare la ruota del tempo, che ineluttabile finisce la sua corsa dove tutto doveva finire.
Come dimostra Lenora: incinta del reverendo Teagardin (Robert Pattinson), che ha il vizio di sedurre e portarsi a letto le giovani della sua chiesa, tenta il suicidio quando lui afferma che il figlio che lei porta in grembo non è il suo, perché “Come può essere il mio se quello che abbiamo fatto è stato solo parlare con il Signore”?
E, in ogni caso, con tremenda freddezza le rivela che non lo riconoscerà mai, perché la sua carriera da predicatore verrebbe compromessa e che lei, quindi, diverrebbe agli occhi di Dio e della Chiesa solo una sciagurata ragazza madre.
L’illusione che finalmente la vita di Lenora possa prendere una piega più serena viene in questo modo decomposta e fatta a pezzi da affermazioni estremiste che rivelano tutta la disperazione e il bigottismo dell’America di quegli anni.
Lenora si annoda al collo una corda per impiccarsi, sale su un secchio per darsi la spinta, ma, come la voce narrante ci spiega durante la scena, lei è più intelligente di quello che sembra e capisce che sta per fare una cavolata: la nonna e lei avrebbero cresciuto il bambino insieme e sarebbero stati tutti felici.
Il suicidio non è la soluzione, Lenora inizia, quindi, a sciogliere il nodo della corda quando inciampa e il secchio sotto i suoi piedi cade e si rovescia. Anche Lenora muore.
L’ultima scelta di Lenora era quella giusta, perché andava ad appagare la sua vocazione di vivere felice, ma la dura legge dell’America degli anni 50/60 non lascia scampo a nessuno: certe persone nascono per essere sepolte.
Una conclusione inevitabile
La disperazione, ora, si tinge di macabro. E la conclusione è solo una tragica conseguenza di ogni scelta appena fatta. Da tutti.
Arvin prende la pistola appartenuta al padre, va in chiesa, uccide il reverendo accusandolo di essere il responsabile della morte di Lenora, scappa e incontra la coppia di killer di autostoppisti. Anche Arvin come Roy capisce le intenzioni dei due, ma anticipa le mosse e uccide Carl e Sandy.
Lo sceriffo rintraccia Arvin nella sua vecchia casa paterna, nella radura dove il padre si suicidò e il cane fu sacrificato. Lee tenta di far uscire allo scoperto Arvin senza fargli alcun male, ma quando hai già scelto come andrà a finire non c’è destino o Dio che tenga: Arvin spara anche allo sceriffo che cade e muore.
Uno ad uno i personaggi de “Le strade del male” finiscono sotto terra, per scelte proprie o per le conseguenze di scelte altrui. Non giudichiamo se queste siano state giuste o sbagliate, perché Arvin, Roy, Willard e Lenora in realtà non ne avevano alcuna.
Erano destinati sin dalla nascita a morire così.
Arvin chiude il cerchio della sua vita seppellendo come si deve le ossa del suo povero cane Jack. L’anima si sente sollevata, ma deve scappare. Un hippie lo carica a bordo, in auto Arvin vorrebbe dormire perché la stanchezza della disperazione ormai si fa sentire, ma non si fida di quell’uomo. Chi è? Che storia ha? Che scelte ha fatto? Ma i desideri di una vita diversa e più felice iniziano a farsi largo nella sua mente e sceglie, giustamente, di fidarsi.
Arvin è stanco, chiude gli occhi e si lascia andare, compiendo l’ultima scelta possibile che gli rimane: sognare una nuova vita.