Agosto 1968, Chicago. Illinois. La Convention democratica per la nomina del candidato che sfiderà Nixon alle elezioni, si trasforma nell’ennesima occasione persa dagli Stati Uniti di mantenere la sua parola: quella di essere la terra delle opportunità, in cui tutti possono ottenere la propria vittoria. O la propria libertà.
Il nuovo film di Aaron Sorkin Il processo ai Chicago 7 in streaming su Netflix e candidato come Miglior Film ai prossimi Oscar, rispolvera un evento che il tempo ha sconsideratamente messo in naftalina e perso nell’oblio: il processo a 7 (in realtà 8) esponenti della sinistra radicale americana, accusati di aver incitato alla violenza la folla del movimento pacifista andata a manifestare durante la suddetta Convention.
La storia che risorge
La storia americana – e tutto il mondo – ne hanno perso le tracce per decenni, non tanto per dimenticare gli ignominiosi scontri avvenuti tra manifestanti e polizia, quanto, piuttosto, per calare un invisibile velo ipocrita su ciò che è avvenuto poi.
Velo con cui la politica e la giustizia americana si sono fatte scudo e, strumentalizzando gli eventi a proprio favore, hanno continuato a propagandare sfacciatamente i propri slogan di libertà.
Aaron Sorkin toglie il lenzuolo e la storia, non così tanto romanzata, torna alla luce in questo film sotto una prospettiva ben diversa.
Il Sessantotto stesso torna alla luce privato della sua aura di “mito”: l‘annus horribilis americano era iniziato a marzo con il Presidente Lyndon B. Johnson che rinunciava alla candidatura alla Casa Bianca per poter concentrarsi sulla guerra del Vietnam; in aprile a Memphis viene assassinato Martin Luther King, due mesi dopo cade anche il miglior candidato democratico possibile Bob Kennedy; a novembre Richard Nixon viene eletto presidente.
Sullo sfondo, migliaia di giovani chiamati alle armi continuano a perdere la vita in una guerra assurda scatenata contro un Paese povero situato dall’altra parte del globo: il Vietnam.
Sorkin evidenzia l’errore storico di ricordare il Sessantotto (solo) come un periodo di rivoluzione sociale, di liberazione e di rinascita culturale.
Lo è stato, sì, ma ad un prezzo (altissimo) che molti innocenti hanno pagato.
Basti pensare già solo alle fila dell’esercito a stelle e strisce composte da bianchi e neri che combattevano insieme contro i vietcong e in patria, invece, si uccidevano fra di loro per motivi razziali.
In mezzo a questi tumulti, sono nati le Pantere Nere, i movimenti universitari di sinistra, quelli femministi, gli attivisti per i diritti degli omosessuali…
Insomma, classi sociali diverse si univano finalmente tra di loro, a Chicago e in altre città statunitensi, per manifestare non solo il proprio dissenso politico, ma per ribadire la voglia di costruire ed intervenire attivamente nella vita politica e sociale dell’America martoriata.
In pace.
La pace attraverso strade diverse
Gli stessi leader di sinistra che, poi, sono stati accusati e mandati a processo, avevano idee diverse su come poter raggiungere questi risultati.
Tom Hayden (Eddie Redmayn nel film) era il rappresentante di quella sinistra radicale americana che puntava alla partecipazione attiva alla politica, perché “se non si vincono le elezioni non c’è libertà né uguaglianza”.
Dall’altra parte, abbiamo i due hippie Abbie Hoffman (un sempre brillante Sacha Baron Cohen) e Jerry Rubin (Jeremy Strong), il cui scopo era il tentativo di sintetizzare il pensiero radicale di sinistra con l’enfasi edonista di cui si facevano portavoce: “Il mondo è il nostro palco”, dice in una scena Hoffman.
Accanto ai movimenti di sinistra, anche quelli cristiani sentivano il dovere di manifestare e, tra gli scontri avvenuti in quella celebre estate, si trova coinvolto anche il loro principale esponente, David Dellinger.
Eppure, nonostante le differenze di pensiero e di idee, lo stesso Hoffman esaltava il coraggio e il patriottismo insiti nel suo collega Hayden.
Certo, Sorkin minimizza gli scontri fra i due, ma il senso del film è proprio questo: nella tragedia di essere stati ingiustamente accusati di un crimine mai commesso, le idee trovano forza comune, nel tentativo di scardinare un sistema e mostrarlo al mondo per quello che realmente è. Niente di più che un falso mito.
Ne Il Processo ai Chicago 7 Sorkin, con un’apprezzabile e sottile ironia, rispolvera la storia e mette in evidenza il marcio del sistema giudiziario americano dell’epoca.
In primis il processo: non è più una questione civile o penale, ma diventa un evento soprattutto politico e mediatico.
Non si trattava tanto di giudicare un reato, non commesso e per di più evitabile se le autorità di Chicago avessero ascoltato le giuste richieste dei leader pacifisti di esercitare il proprio diritto al dissenso in piazza, bensì di una dimostrazione pubblica del pregiudizio politico, sociale e razziale insito nella giustizia statunitense, ben visibile nel comportamento di tutta la corte durante il processo e culminato nell’inqualificabile atteggiamento del giudice Julius Hoffman (Frank Langella nel film).
La politica come strumento di soprusi
Fra gli imputati, infatti, c’era anche il capo delle Pantere Nere Bobby Seale (Yahya Abdal-Mateen II), preso di mira dalle continue umiliazioni pubbliche dallo stesso giudice: costretto, fra le altre cose, ad assistere al proprio processo per giorni imbavagliato e legato ad una sedia.
Tutto ciò perché Seale, sin dall’inizio, aveva chiesto legittimamente di non essere rappresentato dallo stesso legale degli altri imputati, perché il suo vero avvocato era malato e, in quel momento, si trovava in ospedale.
Ma, solo dopo giorni di soprusi in pubblico nell’aula del tribunale, il giudice Hoffman concese di stracciare la deposizione di Seale e di lasciarlo andare.
Le Pantene Nere, oltretutto, non parteciparono nemmeno alla Convention di Chicago, solo Bobby Seale ci andò per tenere un discorso.
“Quattro ore non di più”, questo il tempo che Bobby Seale rimase a Chicago; eppure si trovava lì, sul banco degli imputati, come gli altri per un crimine mai commesso.
Un’occasione che la politica americana non si fece scappare: prendere il leader delle Pantere Nere, che, a detta di J. Edgar Hoover era “la più grande minaccia alla sicurezza del paese” e, contemporaneamente, lanciare un messaggio a tutti i movimenti pacifisti americani.
E mica è finita. La stessa giuria venne più volte cambiata e manipolata, facendo credere al popolo che molti dei giurati erano stati minacciati di morte dalle Pantere Nere stesse, se non avessero fatto “bene” il proprio dovere.
Uno dei leader del movimento nero, Fred Hampton, venne addirittura “giustiziato” durante il processo, perché la sua intelligenza stava man mano sopperendo alla mancanza di un legale rappresentante per Seale.
Il Processo ai Chicago 7: un finale amaro
E poi la ciliegina sulla torta: quando la difesa avrebbe potuto vincere grazie alla testimonianza dell’ex Procuratore Generale Ramsey Clark (Michael Keaton nel film), il giudice Hoffman ritenne la sua testimonianza non pertinente, in quanto “pericolosa per la sicurezza nazionale”, facendo allontanare la giuria.
Insomma, il testimone chiave per la difesa giurò il vero, ma senza una giuria che potesse sentirlo. Non solo, la sua testimonianza avrebbe scagionato gli imputati perché, all’epoca dei fatti, la Procura non ritenne necessario rinviare a giudizio nessuno, dato che gli scontri di Chicago non erano stati iniziati dai manifestanti, ma dalla polizia di Chicago stessa.
Gli applausi alla verità scrosciarono, pertanto, in un’aula vuota: la giuria era stata fatta allontanare e la testimonianza di Clark venne cancellata dal verbale per ordine di sicurezza nazionale.
“Tuto il mondo ci guarda!” gridano i manifestanti fuori dal palazzo di giustizia nel film, ma nessuno ascolta.
Ogni tentativo di difendere la libertà da parte della giustizia, si trasforma, invece, in un’arma che ottiene l’effetto contrario.
Il processo ai Chicago 7 non è stato, quindi, un equo verdetto, perché la condanna non è stata pronunciata semplicemente contro sette imputati, ma contro la democrazia stessa.