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Away: space drama che non decolla

Netflix torna nello spazio: dopo il mezzo successo (o mezzo flop) di Lost in Space e la serie comedy Space Force, ecco che sbarca sulla piattaforma statunitense Away.

Sbarca sì, ma non decolla proprio.

Eppure i preparativi per il lancio erano stati fatti seguendo la miglior procedura possibile: Hilary Swank (doppio Oscar) nominata capitano della missione e Josh Charles (L’attimo fuggente) come copilota; il pianeta rosso come obiettivo del viaggio interplanetario che diventa anche il nuovo sogno americano e per finire, udite-udite, drammi umani, lacrime e tragedie familiari a volontà che – a quanto pare – piacciono tanto al pubblico d’oltre oceano.

Scopo della missione: atterrare su Marte, verificare che ci sia stata vita, piantare un paio di piante di basilico e controllare che il pubblico non abbia stoppato la visione per una fuoriuscita eccessiva di noia dalla bocca. 

3-2-1 Go…

“Houston, abbiamo un problema”: a partire da Cape Canaveral sono solo le buone intenzioni, le lacrime, un razzo di cliché spaziali inutili e un paio di attori molti bravi. No, facciamo solo un’attrice molto brava. Tutto ciò che invece avremmo voluto sapere di una missione tanto ambiziosa rimane in Texas.

In un futuro o in un presente (non si capisce bene) in cui sarà o è possibile wazzappare in pieno cosmo con il salotto di casa, la serie sviluppa e affronta tematiche come le conseguenze della lontananza dalla famiglia, la possibilità di morte e le ataviche difficoltà dell’uomo a fare gruppo, con la stessa intensità con cui un’adolescente affronterebbe la sua prima cotta. 

Ed effettivamente è proprio quello che succede: Emma Green (Hilary Swank, comandante della Atlas) versa milioni di litri di lacrime fra le stelle, perché si sente in colpa per aver lasciato il marito superingegnere-astrorobot del Controllo Missione NASA (Josh Charles) alle prese con difficoltà motorie post-ictus.

Lui si riprenderà perfettamente in men che non si dica, spinto (solo) dal dovere di portare la moglie viva su Marte. Realistico infatti. Lei invece, avrebbe ancora voglia di piangere disperatamente, ma sulla nave è finita la scorta di acqua, quindi niente lacrime da versare, ma in compenso ha due occhi grandi e rossi come le lune di saturno.

Il dramma di Emma, però, non è tanto il marito cervellone abbandonato o la meno importante e vitale macchina di riciclo dell’acqua che si è rotta sulla sua astronave, ma l’impossibilità di assistere sua figlia Alexis (Lex) alle prese con il suo primo bacio. Touché.

I casi (troppo) umani di Away

Per la verità tutte le dieci puntate di Away girano solo ed esclusivamente sui drammi personali di ogni astronauta, cosmonauta e taikonauta partiti con la Swank. Eccessivo.

La Atlas, più che una nave che va su Marte, sembra uno studio di psicanalisi spaziale.

Le competenze tecniche, la professionalità di ogni membro dell’equipaggio, la curiosità che lo spettatore avrebbe voluto togliersi nel sapere come funziona una nave del genere, sono una – piccolissima – parte della storyline e non il main plot.

La serie punta invece (e solo) sui sentimentalismi che l’equipaggio ha messo nello zaino al posto della chiave inglese.

Misha (Mark Ivanir, cosmonauta di mamma Russia) non sa come chiedere scusa alla figlia e ai nipoti perché per l’ennesima volta li ha lasciati sulla terra senza nemmeno abbracciarli o riempirli di bacetti. E poi è cieco… perché c’è un ingegnere cieco su un’astronave per Marte?

Poi il conflitto sessuale e di identità di Wang Yu (Vivian Wu, taikonauta dell’impero cinese), madre di un figlio che ama, moglie di un marito che odia e amante della CapCom del Controllo Missione. Quest’ultima verrà licenziata proprio perché la loro relazione è stata scoperta non dal marito, ma dal partito, che silenziosamente la vorrebbe insabbiare, ma è di fatto fonte di gossip quotidiano per ogni membro del controllo missione e – naturalmente – anche per gli astronauti marziani. Lo sanno tutti che è gay, persino gli alieni.

Abbiamo anche la crisi di fede di Kwesi (Ato Essandoh), botanico ebreo di origine ghanese naturalizzato inglese (l’inclusione voluta dagli Oscar è già in atto a quanto pare), il cui unico cruccio è quello di non poter più coltivare piante su Marte (l’acqua è finita sulla nave, ricordate? le piante a bordo sono morte tutte). E l’unico pregio è quello di sapere a memoria tutto il repertorio di preghiere della Torah.

away: hilary swank e mark ivanir

E poi, infine, c’è Ram (Ray Panthaki): astronauta indiano, partito per Marte perché da bambino lo aveva promesso al fratello morto di tifo (o peste, non ricordo bene) e innamoratissimo della piagnucolante Emma.

Certo, avrei potuto guardare Discovery Channel o Morgan Freeman a questo punto, ma il punto sta nel cercare una risposta adeguata alla domanda: perché portare sullo spazio storie di – banale – normalità terrestre?

Una galleria di cliché

Incidenti, malattie, amori adolescenziali, drammi sessuali, sensi di colpa, sentimentalismi in genere hanno la meglio sul reale problema che la Atlas aveva: la scorta di acqua finita che avrebbe potuto far saltare tutto il progetto. Per la verità è il solo ed unico tema (interessante) che gli autori della serie hanno partorito. Schiacciato però dalla “gravità” intorno all’orbita cuore. 

La soluzione arriva dal Texas, e come sempre non è il frutto di un’elaborata ricerca scientifica o il risultato di continui sforzi tecnici (ricordate Apollo 13?), ma solo l’intuizione più o meno giusta del supergenio marito della Swank.

Ma non finisce qui: le storie dei personaggi di Away hanno come sfondo un noioso tappeto di cliché dovuto alla nazionalità/religione degli astronauti.

Per la Cina è indispensabile che Yu sia la prima donna della missione a mettere piede su Marte, perché lei è l’eroina del paese. Per Misha aver servito sempre e comunque la madre Russia gli è costato l’amore della figlia. Ram, in quanto indiano, ha origini povere ed umili. Kwesi, ebreo, sa solo pregare.

Infine, come accade sempre nelle più belle storie per bambini, il dolce finale: non solo la missione riesce e la Atlas atterra su Marte, ma contro ogni interesse politico, militare e sociale, tutti gli astronauti calcano contemporaneamente il suolo marziano, in barba agli accordi internazionali. Applausi scroscianti. Sorrisi, abbracci e altre lacrime.

E vissero tutti felici e contenti. 

The end (speriamo).

Luca Nasetti
Luca Nasetti
Laureato in Filosofia della Religione e giornalista professionista dal 2008. Appassionato di giochi di ruolo da tavolo e dal vivo, letteratura fantasy e cinema.

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