La Festa Nazionale della Liberazione d’Italia è una commemorazione che ha visto la produzione di moltissimi film per raccontare e tramandare quanto di davvero prezioso è accaduto al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Il 25 Aprile è una data simbolica con cui si vuole celebrare la caduta nel nostro paese del regime Nazifascista ad opera delle potenze dell’Alleanza, rappresentate principalmente da Americani e Inglesi.
Tale festa è conosciuta anche come anniversario della Resistenza, giornata nella quale si rende omaggio ai partigiani di ogni fronte che a partire dal 1943 contribuirono alla causa.
Di seguito per voi una selezione dei più significativi film per la Festa Nazionale della Liberazione a cura della Redazione di Film e Dintorni.
La filmografia su antifascismo e resistenza è un ampio filone cinematografico che si è sviluppato negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Roma città aperta
Iniziamo questa classifica descrivendo una delle opere più celebri e rappresentative del neorealismo cinematografico italiano: Roma città aperta.
È il film che fece acquisire notorietà internazionale ad Anna Magnani, protagonista insieme ad Aldo Fabrizi, qui in una delle sue interpretazioni più famose.
È il primo film della Trilogia della guerra antifascista diretto da Rossellini.
In virtù del suo grande successo, il film ha a lungo definito l’immagine dell’occupazione tedesca di Roma e della Resistenza romana nell’immaginario collettivo e quindi simbolo della Festa Nazionale della Liberazione d’Italia.
Il film, che doveva intitolarsi Storie di ieri, nasceva come documentario su don Giuseppe Morosini, sacerdote realmente vissuto a Roma e ucciso dai nazisti nel 1944.
Ben presto, anche grazie agli apporti di Fellini, aggiuntosi agli altri autori in fase di sceneggiatura, il film si arricchì di storie e di personaggi e prese l’aspetto di un lungometraggio a soggetto:
cosicché il finale (la fucilazione del prete), che doveva costituire il tema principale del documentario, divenne la conclusione drammatica di un racconto corale sulla vita quotidiana in una città dominata dalla paura, dalla miseria, dalla delazione e dal degrado.
La Vita è Bella
Raccontare le vicende interne ai campi di sterminio con comicità, per giunta dal punto di vista di uno dei deportati, sembra essere una missione impossibile.
Eppure il film La vita è bella, del 1997, riesce nella titanica impresa senza cadere nel grottesco, mostrando sulle scene tutta la dolcezza di un padre affezionato che cerca di preservare suo figlio dagli orrori del periodo nazifascista.
Questo film ci mostra una struggente dualità. In un primo tempo vediamo un uomo che si costruisce pezzo dopo pezzo la propria felicità. Incontra una donna e se ne innamora, finendo per farla innamorare a sua volta, primo passo per costruire successivamente anche una propria famiglia, con la nascita di suo figlio ecco dunque che si è costruito anche una discendenza.
In un secondo tempo, tutto ciò gli viene portato via. E allora ecco la deportazione, la separazione dalla moglie e tante, troppe crepe in quell’idilliaca felicità che si era guadagnato.
Nonostante questo il suo animo non si snatura e decide che vale la pena continuare a combattere, scegliendosi una battaglia alquanto ostica: trasformare tutto ciò che li circonda in un gioco a punti, per far sì che suo figlio, vivendo nell’illusione a fin di bene, non soffra.
Ed ecco allora che l’ubbidire a ciò che i signori in divisa comandano non sembra più essere così pesante. O meglio, lo è, ma almeno serve a qualcosa, a quel guadagnare punti per vincere il gioco.
Come per tutte le cose, anche per questa particolare competizione giunge la fine. Una fine rappresentata proprio dalla Liberazione americana che vede i soldati dell’Alleanza entrare nel Lager dove Guido – questo il nome del personaggio rappresentato da Benigni – viene tenuto prigioniero insieme al figlio Giosuè e a moltissimi altri ebrei.
Durante la furia dell’ultimo delirio nazista, che vede i soldati sparare e uccidere quanti più prigionieri possibile prima di capitolare e arrendersi, Guido inventa la sfida finale del gioco: nascondersi senza farsi scoprire.
Giosuè esegue rintanandosi in una cabina, mentre suo padre tenta un ultimo disperato tentativo di ritrovare la moglie che non solo sarà vano, ma che lo porterà anche alla morte per fucilazione.
Gli Americani sono più forti, i loro carri armati implacabili, il loro senso di giustizia si appaga quando l’ultimo soldato del Reich viene catturato.
Il gioco è finito.
“Chi ha vinto?” vi starete chiedendo, e qui forse il finale del film potrebbe portare fuori strada.
Perché sapete, nel vedere il piccolo Giosuè diventare grande e poter vivere un futuro che il nazismo gli avrebbe altrimenti strappato, allo spettatore è chiaro che nonostante come sia andata c’è un solo vincitore: ed è Guido.
Sebbene non possa ritirare più alcun premio.
La Ragazza di Bube
La ragazza di Bube è un film del 1963 diretto da Luigi Comencini, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Cassola.
L’atmosfera del film differisce da quella del romanzo, in quanto i due protagonisti del romanzo, Mara e Bube, sono degli adolescenti, mentre il film viene interpretato da attori giovani, ma in piena età adulta.
Per il resto la trama del romanzo viene rispettata più o meno fedelmente, fatta eccezione per pochi adattamenti indispensabili: la storia del libro è infatti complessa e ricca di particolari.
Al termine della seconda guerra mondiale, la contadina Mara (di 16 anni) s’innamora ricambiata del partigiano Bube (di 19 anni).
Un omicidio compiuto da Bube lo costringe però alla clandestinità e alla fuga dall’Italia.
La ragazza, decisa ad aspettare il suo amato, si trasferisce in città dove, grazie a Stefano che intende sposarla, trova anche lavoro: non ha tuttavia più notizie di Bube per molti mesi.
Quando finalmente viene a sapere che il partigiano è tornato ed è stato arrestato alla frontiera, si reca in carcere a trovarlo.
Consapevole dell’amore che prova per Bube, decide di aspettarlo per anni, finché finisce di scontare la sua pena, rifiutando così più e più volte le richieste di un futuro insieme avanzate da Stefano.
Il partigiano Johnny
Il partigiano Johnny è un film del 2000 diretto da Guido Chiesa, tratto dall’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio.
Johnny, studente universitario appassionato di letteratura inglese, dopo l’8 settembre 1943 diserta dall’esercito a Roma e ritorna a casa, ad Alba.
Inizialmente rifugiatosi in una villa in collina, dove si dedica ai suoi studi, dopo la morte di un amico decide di agire in prima persona, lascia quindi la città e si aggrega alla prima formazione partigiana che incontra: i “rossi” guidati dal Biondo, dei quali non condivide l’ideologia comunista, ma solo il desiderio di combattere i fascisti.
Rimasto solo dopo che il gruppo si è sbandato sotto l’attacco tedesco, riesce a raggiungere la formazione dei badogliani detti anche “azzurri” o “autonomi”, guidati dal carismatico Comandante Nord in contatto con gli alleati angloamericani, meglio equipaggiati ed organizzati.
Ma tanti, piccoli scontri decimano e disperdono le loro forze, Ettore viene catturato e condannato a morte, Johnny si ritrova ad affrontare il duro inverno del 1944 di nuovo solo.
In primavera, Nord riunisce gli uomini e riprendono le attività di guerriglia.
Il film si chiude su un’immagine fissa di Johnny impegnato in combattimento, forse sopraffatto dai nemici, seguita dalla scritta “Due mesi dopo la guerra era finita”.
Flags of our Fathers
Flags of Our Fathers è un film del 2006 diretto da Clint Eastwood e scritto da William Broyles Jr e Paul Haggis.
Basato sull’omonimo libro scritto da James Bradley e Ron Powers, descrive la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista dei marines statunitensi.
Si tratta della ricostruzione di come tre di sei marines che furono fotografati dal Premio Pulitzer Joe Rosenthal durante la battaglia di Iwo Jima nell’atto di innalzare la bandiera americana sul suolo giapponese sul monte Suribachi, siano stati fagocitati dalla macchina di propaganda americana divenendo:
simbolo tangibile della imminente vittoria sul nemico ed al contempo strumento per la raccolta di fondi destinati ai disastrosi bilanci della guerra.
Lo scrittore James Bradley, figlio di uno degli uomini che alzarono la bandiera americana (l’infermiere della marina John “Doc” Bradley), decide di cercare altri reduci di quella spedizione militare e chiedere loro cosa realmente fosse successo in quei giorni.
Bradley constata presto che molte delle cose che il mondo crede di sapere sulla foto e sulla battaglia sono sbagliate, soprattutto perché essa fu assunta come simbolo della vittoria mentre in realtà fu scattata solamente durante il quinto di quaranta giorni di sanguinosa battaglia.
Il dipartimento militare che visionò la foto, fortemente simbolica, ritenne di poterla usare come potente mezzo di propaganda.
In poco tempo chiese di identificare gli uomini ritratti nella foto e di trovare dove essi fossero, ma solo Ira Hayes, Rene Gagnon e, appunto, John “Doc” Bradley furono localizzati; gli altri erano nel frattempo già morti.
I tre furono subito riportati negli USA per dar vita ad un massiccio tour in tutti gli States, in modo da poter far fronte alla necessità di raccogliere contributi economici popolari.
Conclusioni
La Liberazione ha rappresentato forse il punto più alto sicuramente della seconda Grande Guerra, ma anche e soprattutto dei principi morali umani.
Quando finalmente la libertà è stata riconsegnata non ad una bandiera, non ad un’ ideologia, non all’appartenenza ad una razza piuttosto che ad un’altra, ma ad ognuno di noi nelle proprie mani si è davvero capito quanto importante sia nella vita di tutti.
Cambiano i periodi e ci allontaniamo sempre più da quanto accaduto in quella disumana contesa mondiale, eppure un motivo c’è se siamo ancora qui a ricordarcene ogni anno.
Perché ora siamo liberi… ma meritiamo di restarlo sempre.
Buon 25 Aprile, italiani! Non smettete mai di lottare per far vincere la giustizia e l’amore.