Benvenuti alla sesta parte della nostra selezione di classici!
Ecco a voi alcuni titoli che hanno fatto la storia del cinema internazionale, assolutamente consigliati perché hanno saputo imprimersi nella memoria collettiva divenendo, nel tempo, veri e propri cult!
Pasqualino Settebellezze (1975)
Dramma grottesco scritto e diretto da Lina Wertmüller nel 1975. Interpretato da Giancarlo Giannini e Fernando Rey, il film ebbe un enorme successo negli Stati Uniti.
La pellicola ricevette infatti quattro candidature agli Oscar nelle categorie Miglior Attore Protagonista, Miglior Film Straniero, Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Regia, facendo della Wertmüller la prima donna in assoluto nella storia degli Academy Awards ad essere nominata per la regia.
Pasqualino è un guappo impacciato alla ricerca di riconoscimento e rispetto tra le strade della Napoli degli anni ’30. Unico figlio in una famiglia composta da 7 donne, viene soprannominato “Settebellezze” nonostante la sua figura non particolarmente aitante.
Cercando di difendere l’onore e la dignità, uccide per sbaglio l’uomo che ha costretto una delle sorelle a prostituirsi. Impaurito, fa sparire goffamente il cadavere riducendolo in pezzettini. Ma la sua sbadataggine lo fa scoprire e, fingendo l’infermità mentale durante il processo, viene recluso in un manicomio criminale.
Rilasciato allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Pasqualino viene catturato durante una fuga in Germania e deportato in un campo di concentramento nazista, dove fa la conoscenza di un anarchico che gli innesca idee singolari.
Pur di sopravvivere, comincia a far la corte alla comandante del lager, una donna sadica dai tratti giunonici. Convinta di essere presa in giro, lei gli impone un surreale rapporto sessuale ai limiti dello squallore.
Inutili, però, sono i tentativi di Pasqualino di scampare alle brutalità del campo. Nel finale, viene costretto dalla comandante ad eseguire l’atto estremo per la salvezza: uccidere uno dei suoi più cari compagni di baracca.
Il film è un grande flashback che naviga tra il passato e il presente del protagonista e ne tratteggia l’irreversibile trasformazione. Inizialmente pavoneggiante, ma vigliacco per natura, Pasqualino segue i propri istinti basandosi sulla sua personale filosofia del “tirare a campare”, come canta Enzo Jannacci nel tema portante della colonna sonora.
Giancarlo Giannini, che descrive il suo personaggio come un “pulcinella della commedia dell’arte in un campo di concentramento”, interpreta nel finale un Pasqualino distrutto, ignobile, profondamente scosso dagli orrori che ha vissuto.
Lina Wertmüller, grazie alla sublime e patinata fotografia di Tonino Delli Colli, pennella una Napoli colorata e burlona, quintessenza dell’italianità e ricca di sfumature.
Come già avvenuto in “Mimì metallurgico ferito nell’onore” e “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, la regista deforma situazioni e personaggi all’inverosimile, creando un indimenticabile universo infarcito di stravaganze, eccentricità e grottesco.
Universo che viene consacrato definitivamente nel 2019 con l’Oscar onorario alla carriera.
Febbre da Cavallo (1976)
Commedia diretta da Steno, pseudonimo di Stefano Vanzina, scritta nel 1976 da Steno, il figlio Enrico Vanzina e Alfredo Giannetti.
Precedentemente attore per grandi registi come Mario Monicelli, Elio Petri e Tinto Brass, Proietti trova soltanto con questo film la consacrazione definitiva nel mondo del cinema, entrando nell’immaginario collettivo con il suo irriverente “Mandrake”.
Anche “Er Pomata”, interpretato da Enrico Montesano, diviene uno dei personaggi più amati della commedia all’italiana. La figura femminile principale è invece affidata a Catherine Spaak.
Inizialmente, però, Febbre Da Cavallo non riscontrò molti favori. I critici la bollarono come un’opera minore e durante la programmazione nei cinema non fece faville al box office.
La riscoperta si deve, in parte, grazie alla città di Roma. Il film, ambientato nella capitale e quintessenza di alcuni caratteri distintivi della romanità, comincia ad essere trasmesso con frequenza nelle televisioni locali durante gli anni ’80.
Con il tempo, complice l’ascesa di entrambi i protagonisti maschili, alcune battute di Mandrake e Er Pomata diventano parte integrante del vocabolario comune.
Il personaggio protagonista del film è l’aspirante attore Bruno Fioretti, soprannominato Mandrake per via delle sue doti trasformistiche e del suo sorriso magnetico.
Sposato con Gabriella, possiede il vizio irrefrenabile delle scommesse ippiche. Affiancato dagli squattrinati amici Er Pomata, goffo studioso di statistiche equine, e Felice, svogliato ausiliare del traffico, passa gran parte del suo tempo racimolando i soldi per scommettere ed escogitando nuove “mandrakate” per imbrogliare i propri creditori.
Gabriella, a seguito di una seduta con una cartomante, predice un improbabile Tris vincente da parte di tre cavalli ritenuti tra i più scarsi. Mandrake, persuaso dagli amici, non gioca la quota e, a seguito dell’inaspettata vittoria del Tris, perde una vincita di 20 milioni.
A questo punto Mandrake non può mentire alla moglie, la quale è sicura di essersi accaparrata la lauta somma. I tre amici architettano perciò una serie di rocamboleschi piani per recuperare i soldi persi, non riuscendo mai nel loro intento.
Bruno pianifica la “super mandrakata” finale, rapendo un imbattibile fantino spagnolo e spacciandosi per lui, truccando così una corsa. Una volta scoperti, i tre amici si ritrovano in tribunale, dove Mandrake snocciola un monologo sul significato più profondo delle scommesse e del giocatore di cavalli.
Mandrake e i suoi amici, scoprendo che il giudice davanti a loro è uno scommettitore incallito come loro, riescono a farla franca. Nel finale, il giudice diventerà infatti “socio” di scommesse del trio.
Febbre Da Cavallo, che ebbe anche un criticato sequel nel 2002, è un film leggero e irresistibile, la cui sceneggiatura nasconde un velato messaggio di denuncia ai giochi d’azzardo. Rimane uno dei cavalli di battaglia della filmografia di Steno, nonché l’apice della carriera cinematografica di Proietti e Montesano, le cui interpretazioni vengono ancora oggi citate e imitate.
Toro Scatenato (1980)
Film drammatico biografico del 1980 scritto da Paul Schrader (già sceneggiatore di Scorsese per Taxi Driver) e Mardik Martin e interpretato da Robert De Niro e Joe Pesci.
È liberamente ispirato alla vita del pugile americano Jake LaMotta, campione dei pesi massimi degli anni ’40. Toro Scatenato venne candidato a 8 premi Oscar, accaparrandosene due: Miglior Attore Protagonista per De Niro e Miglior Montaggio. Eletto come il magnum opus di Martin Scorsese da molti esperti, è spesso annoverato tra i migliori film della storia del cinema.
Cercando di farsi un nome all’interno dello spietato mondo del pugilato newyorkese, Jake LaMotta trova nel fratello minore Joey (Joe Pesci) un manager fidato. Inizialmente restii a farsi sottomettere dalla mafia locale, cedono poi all’influenza di alcuni protettori truccando incontri a loro favore, guadagnando successo.
LaMotta diviene un personaggio rispettato e temuto, riuscendo a conquistare il titolo di campione del mondo dei pesi medi.
Ma, nel contempo, il peso del successo sgretola i capisaldi della sua vita privata. Consumato da una forte gelosia verso l’attraente moglie, viene inoltre accusato di tradimento dal fratello, sospettoso che Jack abbia una relazione segreta con la moglie di lui. Il pugile, tremante di rabbia, prende a pugni Joey, allontanandolo ufficialmente dalla propria sfera privata e professionale.
Rimasto senza manager, viene sconfitto durante un importante incontro, che segnerà l’inizio della sua decadenza sportiva. Il suo corpo perde la prestanza fisica e l’agilità di un tempo e, coadiuvato dall’alcool, ingrassa a vista d’occhio. I continui fallimenti e la forte incostanza lo portano al ritiro professionale nel giro di pochi anni.
Jake, ormai divorziato e lontano dai figli, dedica il suo tempo alla gestione di un locale notturno, dove si esibisce anche in veste di comico. Ma subentrano presto nuovi problemi, in quanto LaMotta viene accusato di sfruttamento della prostituzione e altri illeciti affari.
Disperato, estrae le preziose gemme della sua cintura di campione del mondo per racimolare qualche soldo. Viene così sbrandellato l’ultimo ricordo di un glorioso passato. LaMotta finisce in prigione ed è solo al mondo. Nemmeno il fratello, con cui cerca di scusarsi, è più interessato a lui.
Jake LaMotta rappresenta la realizzazione e la disfatta del sogno americano. La sua indole di supremazia e inappagamento costante lo porteranno ad essere un uomo abbandonato e ridicolizzato, incapace di gestire la propria natura e i propri istinti.
L’intenso De Niro si veste di tutte le sfumature dell’instabilità umana, regalando la performance più riuscita e faticosa della sua carriera. L’attore seguì, infatti, un rigidissimo allenamento che lo portò a perdere e riacquistare peso nel giro di pochi mesi.
Scorsese decise di girare la pellicola in bianco e nero. Ispirato ad avvenimenti realmente accaduti negli anni ’40, sentiva che il colore non era il registro migliore per ricreare a pieno l’epoca del vero Jake LaMotta.
La post-produzione ebbe un processo più lungo del solito, in quanto il regista volle supervisionare personalmente ogni minimo dettaglio, concentrandosi in particolar modo sul montaggio e la colonna sonora. Pare che l’editing venne fatto nel suo appartamento durante le ore notturne.
Toro Scatenato è una pellicola imperdibile, che pennella l’ascesa e il tracollo di uomo. E ci ricorda che pugni autoinflitti sono sempre i più letali.
Tempi Moderni (1936)
Tempi Moderni è un film comico scritto, interpretato e diretto da Chaplin nel 1936. Considerata una delle opere più influenti di tutti i tempi, ha come protagonista Charlot, un goffo vagabondo, durante la “Grande Depressione” americana.
Charlot è un operaio incaricato di stringere bulloni in una fabbrica a catena di montaggio. I gesti ripetitivi ed estenuanti del lavoro lo portano a uno stato di nevrosi, in cui comincia a immaginare bulloni persino nei bottoni dei capi d’abbigliamento. La sua ossessione, che lo spinge ad immergersi fin dentro gli ingranaggi del motore, viene curata in una clinica.
Dimesso dall’ospedale, Charlot viene scambiato per il portavoce di una manifestazione di rivolta e finisce in carcere. Qui, dopo una serie di disavventure, ferma il tentativo di sommossa di alcuni galeotti, guadagnandosi il favore delle autorità.
È, quindi, nuovamente libero, ma senza occupazione, in quanto la recessione dovuta alla crisi bancaria sta mettendo a dura prova il paese.
Per le strade della città, il vagabondo trova l’amore in una giovane orfana che sta fuggendo dai servizi sociali. I due condividono una catapecchia e sognano un futuro assieme in cui potranno vivere da abbienti.
Una serie di vicende porta la coppia a trovare lavoro in un ristorante. La serata prevede anche un numero di Charlot come performer, ma, a causa della sua tentennante memoria, si scrive il testo della canzone sui polsini della camicia.
Non appena comincia a danzare, i polsini si sfilano facendo sì che Charlot inventi le parole di sana pianta. Miracolosamente, grazie ad un inaspettato successo di pubblico, ottiene un contratto.
Quando tutto sembra girare per il verso giusto, l’orfana viene, però, bloccata dai servizi sociali, da cui ancora una volta riesce a divincolarsi. Abbattuta e nuovamente senza un lavoro, l’orfanella viene consolata da Charlot che le ricorda di sorridere sempre.
In una romantica alba, i due si incamminano per una lunga strada che si snoda davanti a loro. Un futuro roseo si sta aprendo per i due.
Tempi Moderni descrive un periodo storico di profonde trasformazioni. L’uomo diviene succube dell’industrializzazione, passando dal “lavorare per vivere” al “vivere per lavorare”. Chaplin critica la società moderna mostrando l’alienazione e la disperazione dell’uomo comune, che altro non è che un insulso ingranaggio all’interno di una gigantesca catena di montaggio.
Nella scena iniziale contrappone un gregge di pecore ad una folla di persone all’uscita dalla metropolitana. Un’immagine simbolica ed intuitiva che racchiude tutta la poetica dell’opera.
Tempi Moderni è anche un momento spartiacque per la carriera del regista. Dal 1927, ad Hollywood, era in corso la rivoluzione del sonoro. Innumerevoli protagonisti del cinema muto, che facevano della mimica e della gestualità la propria arte, furono eclissati e dimenticati delle nuove produzioni che strabordavano di parole.
Chaplin riuscì, però, a non piegarsi alle nuove tecnologie. Tempi Moderni è un film sonoro, ma solo parzialmente, in quanto contiene rumori e musiche, ma nessun tipo di dialogo parlato. Le uniche voci umane udibili proferiscono attraverso altoparlanti e macchinari. Ma con un escamotage, Chaplin fece sentire al pubblico la sua voce per la prima volta. Charlot, nella scena in cui canta al ristorante, si esibisce in un lessico inventato, fruibile da tutti gli spettatori del mondo senza distinzione di linguaggio.
Tempi Moderni fu l’ultima pellicola “muta” di Chaplin che, nel 1940, parlò ne Il Grande Dittatore, portando un’altra innovazione. Quella di schiaffeggiare con la comicità la più grande minaccia della storia umana: Adolf Hitler.