La paternità contesa del capolavoro che cambiò per sempre la storia del cinema nell’ultima fatica di David Fincher, Mank
È una regola non scritta del cinema, quella secondo la quale sequel e remake non sono (quasi) mai all’altezza degli originali.
Che dire, invece, di quei film che raccontano il dietro le quinte della realizzazione di altri, cui gli anni e le progressive elaborazioni critiche hanno accresciuto l’aura mitica?
Un’operazione già tentata da Saving Mr. Banks nel 2013, con il celeberrimo Mary Poppins, ma che si è risolta nei toni, eccessivamente autocelebrativi della stessa Walt Disney, nei confronti dell’omonimo padre fondatore.
Cosa che non accade in Mank, elegia e, al contempo, critica feroce all’ambiente che ha consentito la maturazione di quell’unicum che è Citizen Kane (Quarto Potere in italiano), film che ancora stupisce per la sua originalità tecnica e narrativa.
La critica è rivolta anche (e soprattutto) nei confronti dei suoi protagonisti: in primis Mankiewicz, da cui il nome della pellicola, sceneggiatore alcolizzato di Quarto Potere, uomo dal carattere difficile e dalla lingua tagliente; seconda poi nei confronti di Orson Welles, qua ridotto – ingiustamente – a personaggio secondario, mero showman dall’ego smisurato, incline a prendersi i meriti degli altri.
Nel tratteggiare il rapporto lavorativo e umano tra i due uomini, Fincher ha sposato la tesi di Pauline Kael, la quale, nel suo articolo Raising Kane apparso sul New Yorker nel 1971 – e successivamente screditato – affermava che la paternità della sceneggiatura di Quarto potere fosse da attribuire interamente a Mankiewicz e non anche ad Orson Welles.
Più realisticamente e secondo diverse e più attendibili testimonianze, Quarto Potere fu frutto del lavoro e dell’ingegno di tutti e due, entrambi celebri per il proprio sguardo acuto e per l’anticonformismo.
Lo script originale di Mank, accuratamente riveduto da parte del produttore Eric Roth, già sceneggiatore de Il Curioso Caso di Benjamin Button e Forrest Gump, è stato realizzato da Jack Fincher, giornalista e padre del regista David, che quest’ultimo ha deciso di portare a compimento, dopo un primo tentativo, fallito, nel 1997.
Un’impresa familiare, quindi, che, nonostante il tentativo di sminuire l’apporto di Orson Welles ha, però, l’importante merito di far conoscere e restituire giusta dignità artistica ad uno scrittore geniale, spesso in contrasto con i produttori hollywoodiani.
Avanti e indietro nella vita di Mankiewicz
In Mank, la narrazione si sviluppa lungo due binari paralleli: da una parte abbiamo un Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman) amareggiato dalla vita e costretto a letto, nel 1940, a seguito di un incidente, che si dedica anima e corpo alla stesura di quello che poi sarà Quarto Potere; dall’altra lo ritroviamo di dieci anni più giovane mentre lavora alla Paramount e si trascina, mantenendo la sua verve caustica, fra gli studios e i salotti della Hollywood “bene”, cercando, al contempo, di introdurre il fratello minore Joseph (Tom Pelphrey).
In particolare, egli si attira le simpatie di William Randolph Hearst (Charles Dance), potente magnate dell’editoria, compagno dell’attrice Marion Davies (Amanda Seyfried).
Sarà proprio William Hearst a fornirgli lo spunto, dieci anni più tardi, per il personaggio di Charles Foster Kane in Quarto Potere, la cui sceneggiatura gli è stata commissionata da un giovane e rampante Orson Welles (Tom Burke).
La regia di Fincher salta più o meno agilmente da un decennio all’altro, svolgendo progressivamente il rotolo dalla matassa della vita di Mank, tristemente caratterizzata dal vizio dell’alcol.
Una prova attoriale degna della Hollywood dei tempi d’oro
Mank è qui interpretato da Gary Oldman, il quale, a distanza di soli tre anni dal trionfo come Miglior Attore Protagonista agli Oscar 2018 per il ruolo di Winston Churchill ne L’ora più buia, è stato nuovamente candidato nella stessa categoria.
Che Oldman rappresenti una certezza in tutti i suoi ruoli, da Dracula a Léon a La Talpa, passando per Harry Potter, è, ormai, cosa nota.
Ne film di Fincher lo troviamo ingrassato, disincantato, cinico, in grado di regalarci una prova attoriale intensa e convincente, che nulla ha da invidiare alla “Hollywood dei tempi d’oro” cui la pellicola fa riferimento.
Nominata agli Academy anche l’interpretazione di Amanda Seyfried, attrice particolarmente prolifica, seppur alla sua prima candidatura, che regala alla sua Marion una certa impertinenza travestita da ingenuità, che la rende molto credibile nei panni della giovane compagna di Hearst, che, con tutta probabilità, ispirò il personaggio di Susan Alexander in Citizen Kane.
In generale, ogni comprimario ha una propria – studiata – caratterizzazione, che allontana Mank da quella che è una mancanza comune dei film biografici.
Il primato dell’immagine
La ricostruzione sontuosa della Hollywood dell’epoca, con i suoi set, i vestiti eleganti e le ville barocche; il bianco e nero, la riproduzione – su digitale – dell’effetto fotografico della pellicola e dei cambi di rullo…Mank garantisce agli amanti della settima arte un piacere estetico e nostalgico, che trova un convincente termine di paragone solo in The Artist, film muto francese del 2011 (anch’esso candidato a diversi Oscar).
Ovviamente Mank sparirebbe se messo realmente a confonto con il film che l’ha ispirato, un capolavoro senza tempo, le cui innovazioni tecniche e narrative appaiono strabilianti tutt’oggi, contro una pellicola sì piacevole da guardare, ma abbastanza mainstream nel suo insieme.
In compenso il film sembra vivere di luce riflessa, di conseguenza la maggioranza degli estimatori di Quarto Potere amerà guardarlo (o si accingerà alla visione, se non altro per curiosità), soprattutto per l’accurata ricostruzione visiva della Hollywood degli anni ’30-’40 e per l’utilizzo del bianco e nero, in grado di donare quel fascino retrò caro a molti cinefili.
Che Fincher sia un bravo regista non v’è dubbio alcuno e anche di fronte ad una sceneggiatura nella media è in grado di catturare l’attenzione del suo pubblico attraverso un’eccellente fotografia e delle scenografie sontuose, controbilanciate da un’attenta cura ai dettagli.
Per non parlare dei personaggi, tutti ottimamente caratterizzati a partire da Mankiewicz, con un cast decisamente all’altezza del compito.
Non il migliore esempio di metacinema che si possa annoverare, ma certamente una pellicola da guardare e da tenere d’occhio agli Oscar di quest’anno.
Pur volgendo lo sguardo al passato, un deciso passo in avanti per Netflix, che sta progressivamente alzando la qualità delle sue produzioni, puntanto sul cinema d’autore.